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Non elogiate la depressione. Riflessioni a margine della manifestazione No Expo.

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di Christian Raimo

Dopo aver assistito, con un senso di frustrazione talmente conosciuto da essermici quasi assuefatto, all’esito abbastanza fallimentare della manifestazione No Expo dell’altroieri a Milano, ho cercato le reazioni, anche quelle a caldo, di persone che s’impegnavano a riconoscere questo fallimento e a ragionare sui motivi in termini politici.

Il primo articolo che ho trovato è un pezzo uscito sul Manifesto di Luca Fazio, che è subito molto circolato. S’intitola “I riot che asfaltano il movimento” ed è molto esplicito nel puntualizzare un paio di considerazioni: 1) Questo primo maggio è stato politicamente disastroso, perché la MayDay non ha saputo governare gli scontri, e di fatto ne è uscita vittima (sulla strada prima, mediaticamente appena dopo, e infine politicamente); 2) La piazza era ingovernabile, e probabilmente sarà così anche in futuro se non si fa una profonda autocritica sull’organizzazione della protesta.

“D’ora in poi, come gover­nare la piazza, ammesso che ci siano altre occa­sioni altret­tanto impor­tanti, diven­terà un pro­blema quasi insor­mon­ta­bile. Per­ché la gior­nata di ieri signi­fica che nes­suno a Milano, e anche altrove, ha più l’autorevolezza di poter deci­dere come si deve stare in un corteo.
Que­sto è un pro­blema poli­tico: a poste­riori, è chiaro che non si può accet­tare con leg­ge­rezza la con­vi­venza con chi ha come uno unico obiet­tivo quello di spac­care tutto e basta.”

Anche i pezzi di Leonardo Bianchi e quello di Roberto Ciccarelli (probabilmente i due migliori giornalisti di movimento oggi in Italia), il primo su Vice e il secondo sul Manifesto, erano piuttosto sconsolati.
Nel primo, “Cosa abbiamo visto al corteo No Expo del primo maggio a Milano”, Bianchi dice a un certo punto:

“A livello politico e d’immagine, invece, è tutta un’altra storia. Me ne accorgo immediatamente scorrendo i siti e i social sul cellulare sulla via del ritorno.
Da destra a sinistra, e dal Presidente della Repubblica in giù, la politica si è scagliata all’unisono contro la “violenza teppistica” e i “farabutti col cappuccio,” mentre Alfano—di cui Salvini e il M5S hanno chiesto le dimissioni—ha elogiato l’operato delle forze dell’ordine.
Twitter, invece, trabocca di indignazione per quello che è successo, in moltissimi invocano il pugno duro verso chiunque e qualsiasi cosa, la mamma di Baltimora è ovunque insieme all’intervista al ragazzino che si esalta per la violenza. Le prime analisi a caldo rispolverano i “cattivi maestri” e si chiedono chi abbia armato la mano degli #idiotineri; qualcuno arriva anche a dire che ieri “i fascisti sono tornati a marciare su Milano.” Nella foga si spreca ogni tipo di parallelismo, spesso e volentieri a cazzo di cane.”

Nel secondo, “Fiamme, riot e ordine pubblico: gli effetti del colore nero sul NoExpo”, Ciccarelli fa notare:

“Le ragioni dell’opposizione dei NoExpo (cor­ru­zione, inchie­ste, il lavoro gra­tuito pre­vi­sto nel “grande evento”) sono state com­ple­ta­mente oscu­rate. Ne ha appro­fit­tato l’Ad del mega evento Giu­seppe Sala che, forte della pla­tea di per­so­na­lità poli­ti­che schie­rate a difesa dell’Expo, ha soste­nuto: «Vanno rispet­tate le idee di tutti ma è dif­fi­cile capire — ha detto — quali siano le idee di que­sti vio­lenti». «Rimane una festa rovi­nata, è un pec­cato in un momento come que­sto con tutto il Paese rac­colto intorno ad Expo».”

La sconfitta è tale che Napolitano si può permettere di dichiarare con un’alzata di spalle: “Abbiamo visto di peggio” e Renzi di liquidare tutto con un No comment.

Quali sono le ragioni di questa inefficacia? Per me sono rintracciabili in una rappresentazione del conflitto che accoglie anche chi lo pensa in modo consumista e pornografico. In un pezzo su Internazionale di ieri, ho provato a argomentare meglio.

“Il cul de sac in cui i movimenti di protesta globali si sono infilati ormai da anni è quello di essere inconsapevoli produttori di riot porn: una pornografia della devastazione.
I cortei organizzati, spesso male organizzati, spesso involontariamente o addirittura colpevolmente male organizzati, spesso inorganizzabili, ma soprattutto senza una coscienza di come gestire la rappresentazione del conflitto, lasciano spazio ai desideri individuali e solitarissimi: spaccare tutto, farsi una foto con la macchina bruciata o – appena dopo per contrappasso – commentare su Facebook quanto sia idiota quel ragazzo incappucciato o questa ragazza sorridente, o addirittura a invocare manganellate, mamme di Baltimora, interventi à la Diaz. Il clicktivism è l’altra faccia del riot porn.
Il conflitto diventa un consumo come un altro. Ognuno si può scegliere la sua categoria, come su un sito porno. Ed è molto difficile, per chi invece crede alle ragioni di questa protesta e al bisogno di radicalità, provare a uscire dal vicolo cieco.”

Una riflessione di Claudio Riccio uscita su Il Corsaro (“Bertolt Brecht, la parte del torto e l’arte di perdere la ragione”) affonda anche questa sulle responsabilità dell’antagonismo, in definitiva quindi le nostre:

“L’estetica del conflitto mimato, della passione nichilista per il fuoco di chi replica pratiche di lotta sempre uguali, come un disco rotto, senza mai leggere la fase o il contesto, senza mai ragionare sul senso e sul consenso delle proprie azioni, non ha fatto altro che dare fiato alle trombe della propaganda pro expo, chiudere gli spazi di legittimità del conflitto e aprire gli spazi per una repressione che probabilmente non si limiterà ai soli fatti di Milano. [...]
Il ribaltamento è totale: noi, precari, disoccupati, noi che abbiamo bisogno di reagire, diventiamo nella retorica renziana “quelli che non vogliono reagire”, “quelli che non vogliono farcela”, mentre gli unici con voglia di riscatto, gli unici in grado di infondere una speranza diventano coloro che varano il jobs act, riducono i diritti e il primo maggio inaugurano l’expo elevando a modello di società quella che è la fiera del lavoro gratuito. [...] Più che mettersi in cattedra o davanti a una tastiera e trascorrere il proprio tempo a giudicare soltanto gli episodi, le dinamiche di piazza e la devastazione, può essere utile e necessario esprimere valutazioni politiche chiare e rimboccarsi le maniche ancora di più. Serve un maggior impegno, perché discutere di quanto abbiano sbagliato gli altri, organizzati o singoli, non ci può bastare, servirebbe una seria discussione su cosa abbiamo sbagliato tutti noi che ora abbiamo a che fare con le macerie di Milano. Se rinunci al far parte dei percorsi di lotta e di movimento puoi davvero lamentarti di chi poi li egemonizza o sovradetermina? No, non puoi, o almeno non senza una contestuale riflessione autocritica: il problema non sono solo quelle che vengono definite “presenze sgradite”, ma soprattutto le assenze e i vuoti di chi poteva contribuire ad un esito diverso della mobilitazione, non per forza privo di conflittualità, ma egualmente in grado di estendere il consenso e mettere in difficoltà la macchina propagandistica di Renzi e dell’expo. La rabbia mista a frustrazione di queste ore è quindi figlia anche dei limiti politici di tutte le sinistre del nostro paese e senza un salto di qualità, tanto nella capacità di mobilitazione reale e di organizzazione del conflitto sociale quanto nella proposta politica, il confine tra attivisti politici e commentatori da social network rischia di diventare sempre più labile.”

Non si può evitare di pensare che il fallimento della manifestazione non rappresenti un campione esemplare della crisi della sinistra che è anche e soprattutto una crisi performativa. Una crisi ideale su quale racconto del conflitto provare a tessere, che non sia maniacale, depressivo, consumistico o pornografico.

Nel pezzo di Internazionale notavo come a differenza di altre manifestazioni (14 dicembre 2010 o del 15 ottobre 2011) nessuno stavolta abbia rivendicato gli scontri. In realtà poi ho visto che invece qualcuno non solo li rivendicava, ma ne coglieva i segnali di un paesaggio mondiale a venire. Su Infoaut l’articolo di Luca Fazio del Manifesto viene definito orrendo, e si afferma che c’è stato un cambio di paradigma che molti nell’area dell’antagonismo non hanno ancora avvertito:

“C’è tanto da dire, ragionare e commentare sui fatti di ieri. C’è però innanzi tutto da prendere una posizione chiara sul dove e con chi stare. Sul fatto che è mille volte preferibile trovarsi il giorno dopo a fare i conti con conseguenze ed esiti imprevisti piuttosto che darsi le pacche sulle spalle tra le infinite gradazioni di un ceto politico costantemente impaurito dall’emergere di una qualunque forma di eccedenza non prevista. Atene, Baltimora, Istanbul sono dietro l’angolo. Prendiamone atto e attrezziamoci di conseguenza. C’è invece chi ancora pensa di trovarsi nella stagione dei social forum o peggio, nei trenta gloriosi. Non è (più) così.”

In una nota Facebook, “Expo non è finito. Un orizzonte dopo la rivolta del primo maggio” invece Cristiano Armati critica i toni fallimentaristici, cercando di contestualizzare storicamente quello che accaduto ieri (molte rivolte del passato all’inizio sembravano isolate e impossibili e sono diventate invece fondamenti della storia dei movimenti di liberazione), insistendo che sarebbe un errore pensare di stigmatizzare chi ha spaccato qualche vetrina, perché vorrebbe dire non vedere come la protesta contro Expo è solo cominciata e la repressione che verrà era tutto fuorché disattesa:

“Se è vero come è vero che Expo ha voluto mistificare le reali necessità di un corpo sociale stremato dalla povertà (cioè dalla prima arma che il padronato rivolge contro le classi subalterne per piegarle ai suoi scopi), rinchiudendo le legittime aspirazioni al cambiamento dentro le esigenze di una vetrina scintillante, allora spaccare quella vetrina è stato giusto, sia in termini metaforici che in termini reali. Eppure non è ancora questa la cosa più importante, né il campo in cui è necessario concentrare i propri sforzi. La cosa più importante,infatti, è sottolineare come Expo non è finito. E non è finito non solo perché il tributo preteso dal governo Renzi si estenderà sul Paese per ulteriori sei mesi, ma perché è lo stesso modello che Expo impone ad aver costruito una nuova cornice di “normalità” con la quale confrontarsi e che è necessario spezzare. Basti dire che, annunciando l’organizzazione del prossimo giubileo romano, è  già stata ventilata da parte del governo la possibilità di porre un blocco degli scioperi nel nome di un superiore interesse nazionale…”

Ma se queste sono posizioni molto cristalline, (e su Contropiano per esempio c’è un interessante rassegna di commenti che parte dall’assunto molto condivisibile di non ridurre il dibattito a un “lei è favorevole o contrario?”), buona parte  resto delle analisi all’interno del movimento per forza di cose risente di uno spaesamento, di una difficoltà d’interpretazione che necessita di metabolizzare più lungamente, di analisi a freddo, di evitare non detti mascherati da cautela. Per questo motivo qui quando ho letto sulla bacheca facebook di Franco “Bifo” Berardi la sua reazione a caldo, intitolata “Dalla parte dei teppisti”, ho immaginato, come è accaduto, che – anche grazie alla sua scrittura evocativa – fosse un pezzo destinato a girare, fino a diventare in poche ore il testo di riferimento più condiviso da un’area antagonista più restia a fare autocritica sulla manifestazione.

La visione di Bifo è che è inutile lottare per i diritti o per la democrazia (di cui siamo spossessati da una governance neo-liberista), e occorre ripensare la politica in termini pre-moderni.

“Nel tempo che viene non capirete niente se penserete alla democrazia. Occorre pensare in termini di vita e di morte, e allora si comincia a capire.
Ci stanno ammazzando, capito? Non tutti in una volta. Ci affogano a migliaia nel canale di Sicilia. Un numero crescente di ragazzi si impiccano in camera da letto (60% di aumento del tasso di suicidio nei decenni del neoliberismo, secondo i dati dell’OMS). Ci ammazzano di lavoro e ci ammazzano di disoccupazione. E mentre la guerra lambisce i confini d’Europa, focolai si accendono in ogni sua metropoli.”

È molto affascinante la retorica di Bifo, ma secondo me è scorretta e pericolosa per almeno un paio di motivi.

Primo: perché costruisce una scivolosa visione morale, quando fa leva sul senso di immedesimazione – vedi quando scrive “Ci affogano a migliaia nel canale di Sicilia” o cose del genere. Per quanto possa essere addolorato, indignato, rabbioso e disperato per le morti dei migranti nel Mediterraneo, quel migrante non sono io, che invece mangio decentemente, che ho un passaporto che mi permette di viaggiare etc… E se condivido il senso di esclusione sociale dei migranti, o empatizzo con la loro disperazione, questo non vuol dire che posso pensare di “identificarmi” fino a “sostituirmi” alla loro condizione.
Questa retorica dell’immedesimazione non è in alcun modo utile politicamente: non è necessario identificarsi in chi è spossessato di tutto per battersi a suo favore e a favore dei suoi diritti. Non solo: questa volontà spasmodica di riconoscersi nelle vittime rivela una debolezza dell’identità politica, se non una subalternità psicologica e politica nei confronti delle stesse vittime, che paradossalmente non vengono riconosciute come portatori di una voce autonoma.

Secondo: perché negli ultimi anni – fino al suo libro, Heroes: suicidi e omicidi di massa appena uscito per Verso in Inghilterra prima e per Baldini e Castoldi in Italia – si è molto prodigato a pensare il suicidio e la depressione come una sorta di boicottaggio, di auto-sabotaggio nei confronti di una società turbo-capitalista che – come direbbe Alain Ehrenberg – ti rende impossibile la “fatica di essere te stesso” e – come direbbero Pierre Dardot e Christian Laval in La nuova ragione del mondo – usa la psichiatria come lubrificante sociale.

Certo, se la seduzione dell’Apocalisse è fortissima, il minimo di speranza sindacale è che ci sia qualche Rivelazione, altrimenti l’esaltazione di questo nichilismo oltre che provocatoria, anche sanamente provocatoria, risulta anche un po’ scorretta. Da dove prende per esempio Bifo i dati allarmanti sul suicidio – “più 60% di aumento del tasso di suicidio nei decenni del neoliberismo, secondo i dati dell’OMS”? Probabilmente qui. Ma primo: se si legge il testo non si dice “nel mondo neoliberista”, ma “worldwide”. Secondo: questi incrementi sono forse dovuti anche semplicemente a un diverso modo di segnalare i casi di morte. A guardare qualunque altra statistica, anche le altre dell’OMS, i dati dicono cose diverse. Ci sono degli incrementi in alcuni paesi che hanno delle brusche trasformazioni economiche, ma l’Italia per esempio diminuiscono leggermente (stando a quello che dice l’Istat) e in Grecia – per dire – si riscontra il tasso è il più basso d’Europa. Se volete, qui ci sono un bel po’ di dati.

Ma perché fare le pulci a questo pezzo di Bifo (a cui si vorrebbe dire che se c’è una cosa che forse abbiamo imparato nel ’77 è a trasformare i cortei in feste, e allora non si capisce perché adesso dovremo trasformare le feste in cortei funebri, solo per opporci alla retorica pubblicitaria, funzionalista, efficientista del turbo-capitalismo)? Perché è consolante nella sua visione semplificatoria, e rischia di replicare proprio nei movimenti un meccanismo di autolegittimazione nella deresponsabilizzazione, nel disimpegno. Dicono quelli di Infoaut che tra Baltimora, Instanbul, Atene, la rivoluzione è alle porte…
Viene da replicare con un po’ di realismo che la rivoluzione non è alle porte, e proprio se non si vuole trasformarla in un feticcio, o proprio perché ci si vuole preparare bene, è meglio saperlo.


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